Il mondo ha sempre considerato gli Stati Uniti come la più grande democrazia della modernità. È indubbio che la forma di governo democratica abbia trovato larga diffusione in America prima che altrove in epoca moderna, ma la contemporaneità induce a riflettere sui fenomeni occorsi nell’ultimo secolo che hanno modificato lo stato delle cose. I caratteri politico-istituzionali originali e originari dei padri fondatori sono mutati considerevolmente non tanto nella forma quanto nella sostanza. La causa originaria della nascita degli Stati Uniti d’America risiede nella libertà; e più precisamente nella volontà di indipendenza dei coloni dalla Corona britannica. Fin dai primordi lo spirito della nazione americana fondeva i valori della libertà e dell’uguaglianza con i dogmi religiosi del cristianesimo, presentandosi come una grande democrazia avente una forte base religiosa.
<< La libertà vede nella religione la compagna delle sue lotte e dei suoi trionfi, la culla della sua infanzia, la fonte divina dei suoi diritti. Essa considera la religione come la salvaguardia dei costumi, e i costumi come la garanzia delle leggi e come il pegno della sua durata >> (Alexis de Tocqueville – La democrazia in America).
Il Novecento ha segnato l’abbandono dello spirito americano originario con la fine dell’America del laissez-faire e del mito della Frontiera, soppiantati dalla nuova ideologia del riformismo progressista, che nella sua declinazione democratica ha assunto con gli anni la denominazione di liberal. L’ideologia progressista ha il suo capostipite nel presidente repubblicano Theodore Roosevelt agli inizi del secolo scorso, ma repentinamente finì per attrarre l’establishment democratico che ne divenne il massimo propugnatore nei decenni successivi. La stagione del progressismo democratico, inaugurata da Woodrow Wilson e culminata con Franklin Delano Roosevelt, arriva fino agli anni sessanta con le presidenze di John F. Kennedy e di Lyndon B. Johnson, dispiegando la sua influenza fino all’ultima amministrazione democratica di Barack Obama.
In particolare, la stagione progressista democratica rooseveltiana ha dei caratteri che la rendono somigliante a un fascismo-soft nella sua impostazione di direzione dall’alto della società e dell’economia. Tra i democratici progressisti dell’età roosveltiana se ne ritrovano alcuni con simpatie per il fascismo, addirittura tra i membri dell’amministrazione americana l’Italia fascista-corporativista era guardata con ammirazione dai propugnatori delle politiche progressiste di stampo rooseveltiano e con interesse dai diplomatici impegnati nelle relazioni tra Stati Uniti e Italia. Lo stesso presidente F. D. Roosevelt si informava e seguiva con attenzione quanto accadeva nell’Italia del tempo, intravedendo in essa un modello esemplare di società divisa in corporazioni e guidata da una èlite di governo selezionata sulla base di specifiche competenze.
L’ideologia progressista democratica muoveva dal presupposto che la società moderna avesse bisogno di strutture capaci di governare dall’alto i processi sociali e di imprimere il proprio indirizzo all’economia. Il progresso industriale, tecnologico e scientifico rendeva possibile finalmente la costruzione di una società basata sulla competenza, legando tra di loro i corpi sociali e vincolandoli a operare insieme in vista di obiettivi comuni da raggiungere sotto la direzione superiore dello Stato. In tale prospettiva ad assumere il controllo sulla società e sulla vita delle persone erano chiamati i cosiddetti tecnici (in prevalenza accademici, scienziati e manager) che avrebbero affiancato, di fatto in parte sostituito, la classe politica nelle scelte. È con il progressismo democratico che comincia l’espansione della burocrazia federale (sotto F. D. Roosevelt si arriva per la prima volta a un milione di funzionari federali) e si amplia la rete di agenzie governative federali con lo scopo di controllare e dirigere quanto più possibile ogni aspetto della vita sociale ed economica delle persone. Inoltre sorge il termine tecnostruttura, con il quale si identificano le strutture di consulenza o di decisione da affiancare al governo federale, costituite prevalentemente da ingegneri e scienziati sociali, ai quali è assegnato il compito di fornire indicazioni o prendere decisioni per il miglioramento della società. Inoltre viene accresciuto il legame del governo federale con il mondo universitario. Si diffonde anche un modello di sviluppo economico-sociale definito corporate liberalism con il quale si teorizza lo stretto rapporto tra governo federale e management aziendale; si rafforza così il potere lobbistico.
La rivoluzione progressista democratica (una rivoluzione elitaria!) provocò l’abbandono dei valori fondativi degli Stati Uniti d’America. I tempi di George Washington e di Thomas Jefferson erano ormai storia passata, il lascito morale della Costituzione americana (“We, the people” – 1787) era quasi dimenticato. I valori della libertà individuale e dell’uguaglianza passavano in secondo piano rispetto al progetto di razionalizzazione della società; istituti come la proprietà privata diventavano subalterni alla primaria necessità da parte dello Stato di controllare e orientare le attività socio-economiche; era il progresso scientifico-tecnologico che, secondo i progressisti, imponeva queste scelte.
L’età progressista prima e liberal poi, diffondendo l’illusione che fosse compito dell’èlite al potere indicare al popolo la strada maestra, relegò in disparte i valori costituzionali americani, comunque celebrati retoricamente nei discorsi di W. Wilson, F. D. Roosevelt e J. F. Kennedy, e diede allo Stato federale e alla società americana un’organizzazione statalista, dirigista, tecnocratica e per molti aspetti corporativista.
Sono stati i repubblicani ad assumersi l’onere di reinterpretare lo spirito statunitense delle origini, nei fatti riuscendoci poco. Sul fronte dell’economia il Partito Repubblicano, pur richiamandosi al liberismo, non lo ha mai praticato radicalmente. Infatti, per quanto paradossale possa apparire, perfino durante la presidenza di Ronald Reagan non si riuscì a comprimere la spesa federale e a ridurre il disavanzo, che anzi aumentarono per effetto delle spese militari. Anziché ampliare la libera concorrenza arginando le posizioni monopolistiche e oligopolistiche del potere plutocratico, anziché smantellare la burocrazia federale e le tecnostrutture cresciute a dismisura sotto le amministrazioni democratiche, i repubblicani nel corso degli ultimi decenni si sono dimostrati più attenti a mantenere stretti i legami tra le grandi corporation e il governo federale.
Ci si chiede spesso se gli Stati Uniti d’America possano essere considerati davvero la patria moderna della democrazia e del liberismo. In definitiva, troppo spesso poco democratici sono apparsi i metodi utilizzati per realizzare le proprie politiche da parte delle amministrazioni guidate da presidenti provenienti dal Partito Democratico nell’ultimo secolo e poco liberiste sono state le politiche dei presidenti espressi dal Partito Repubblicano nell’ultima metà di secolo.
Sul destino della democrazia americana, e delle democrazie occidentali più in generale, colpiscono per lucidità profetica le parole scritte quasi duecento anni fa da Alexis de Tocqueville (La democrazia in America):
<< Se cerco di immaginare il dispotismo moderno vedo una folla smisurata di esseri simili e eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima. Ognuno di essi, ritiratosi in disparte, è come straniero a tutti gli altri, i suoi figli e i suoi pochi amici costituiscono per lui tutta l’umanità; il resto dei cittadini è lì, accanto a lui, ma non lo vede; vive per sé solo e in sé, e se esiste ancora la famiglia, già non vi è più la patria. Al di sopra di questa folla vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare alle loro sorti. E’ assoluto, minuzioso, metodico, previdente e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna, se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma, al contrario, non cerca che di tenerli in un’infanzia perpetua. Lavora volentieri alla felicità dei cittadini, ma vuole esserne l’unico agente, l’unico arbitro. Provvede alla loro sicurezza, ai loro bisogni, facilita i loro piaceri, dirige gli affari, le industrie, regola le successioni, divide le eredità: non toglierebbe forse loro anche la fatica di vivere e di pensare? Così, ogni giorno, meno utile e più raro diviene l’impiego del libero arbitrio, più limitata l’azione della volontà. Dopo aver plasmato a suo piacimento ogni individuo, il sovrano stende la mano sulla società intera, coprendola di una fina rete di minuziose regole, uniformi e complesse, attraverso le quali nessuno spirito, foss’anche il più originale e vigoroso, riuscirebbe mai a farsi luce. Il potere non spezza, ma ammollisce, piega e dirige le volontà; non distrugge, non tiranneggia, ma ostacola, comprime, snerva, spegne, inebetisce tutti gli uomini, riducendoli come un branco di animali timidi e laboriosi, di cui lo Stato è il pastore. Ho sempre creduto che questo genere di servitù, pacifica e regolata, potesse combinarsi più di quanto si possa credere con certe forme esteriori di libertà e, financo, con la sovranità popolare. I nostri contemporanei si arrovellano di continuo fra due passioni contrarie, la voglia cioè d’essere liberi e il bisogno di essere diretti. E cercano, non potendo eliminare l’una o l’altra, di soddisfarle insieme, immaginando un potere unico, tutelare, onnipotente, ma eletto dai cittadini >>.
Il potere in America è il risultato combinato dell’intreccio tra i due grandi partiti tradizionali e gli apparati, le tecnostrutture, la burocrazia federale e le corporation. Lo spirito originario è andato perso e il mito del popolo eletto è ormai caduto. Gli Stati Uniti hanno, negli anni, smarrito la vocazione ad essere una immensa land of opportunity. L’immagine della nazione libera, democratica e antiautoritaria, così come i padri fondatori l’avevano concepita, si è sbiadita nel tempo.
Quirino De Rienzo