“Sono vissuto per quasi mezzo secolo nella scuola; ed ho imparato che quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea, certificati di licenza valgono meno della carta su cui sono scritti.“
Così scriveva Luigi Einaudi sul valore legale dei titoli di studi e sul monopolio culturale della scuola di Stato in Vanità dei titoli di studio, estratto dagli Scritti di sociologia e politica in onore di Luigi Sturzo (1947).
L’insigne economista piemontese era un intellettuale di elevatissimo conio. Uno dei più grandi a cui l’Italia abbia dato i natali nell’ultimo secolo e mezzo: politico, economista, accademico, rettore universitario, scrittore, giornalista. Fu Governatore della Banca d’Italia nell’immediato dopoguerra e secondo Presidente della Repubblica Italiana. Senatore del Regno d’Italia e deputato dell’Assemblea Costituente. Accademico dei Lincei, insegnò all’estero e in Italia all’Università di Torino, al Politecnico di Torino e all’Università Bocconi. L’Università di Oxford e l’Università di Parigi gli conferirono la laurea honoris causa. Di cultura classica e umanistica, scrisse sui maggiori quotidiani nazionali, Il Corriere della Sera e la Stampa, ed internazionali, The Economist.
Ma più di tutto fu un liberale. Il Liberale Italiano del Novecento. Autentico, convinto. Il liberalismo lo intendeva alla maniera anglosassone, senza ammettere quelle distinzioni italiche tra la sfera politica e la sfera economica che Benedetto Croce ha voluto introdurre nella cultura del nostro Paese. Per essere liberali nella politica lo si deve essere per forza anche nell’economia: questo il suo credo, questo il credo all’origine di ogni uomo libero del mondo.
De Gasperi si fidava di lui e lo sostenne con tutte le forze possibili nell’elezione alla Presidenza della Repubblica. Era legato da un rapporto di amicizia e di reciproca stima con Sturzo, il cui pensiero politico e sociale è di questi tempi oggetto di gravi travisamenti da parte di chi, forse, non ha mai letto neanche una pagina di quello che scrisse; entrambi condividevano l’idea di applicare alla nuova Italia repubblicana una politica fondata su una visione di stampo liberistico. Se li avessero ascoltati, oggi il nostro Paese non sarebbe quello che è diventato nelle sue manifestazioni più deteriori. Ma dopo Einaudi non c’è stato più nessun liberale di stazza, e dopo Sturzo, che fu nominato senatore a vita dallo stesso Einaudi e che la Chiesa non fece neanche monsignore (a dimostrazione di quanto scomodo fosse il personaggio), nel discorso politico nazionale si è imposta la dottrina del cattolicesimo democratico, progressivamente divenuto più egualitario, statalista ed interventista (quindi poco “sturziano” e molto “dossettiano”), che, affiancato all’ideologia social-comunista nemica dell’ordine capitalistico, ha prodotto la cultura dominante repubblicana. E allora è iniziata la proliferazione dei diritti sociali, quasi sempre costruiti per generare abusi, che hanno richiesto quantità crescenti di spesa pubblica da dare in pasto a camarille e cricche di potere, le quali hanno distribuito indistintamente redditi, sussidi e finanziamenti clientelari con il denaro sottratto alla parte produttiva della nazione; non c’è dubbio che i partiti di massa protagonisti di quella stagione lo abbiano fatto anche per proprio tornaconto elettorale, non a caso rivolgendo le loro politiche alle masse popolari, perché la massa fa numero più del singolo e alle elezioni contano i numeri. Politica tollerabile, benché non per forza condivisibile, quest’ultima, se perseguita con mezzi moralmente leciti e solamente quando le condizioni economiche nazionali lo permettono; pericolosa se ha come costo politico il dilagare della corruzione e come costo economico l’inflazione alta oppure la crescita enorme del debito: come è accaduto in Italia.
Spendere, spendere sempre: era per mezzo della spesa pubblica che si volevano garantire l’ordine, la giustizia sociale e la sopravvivenza del regime politico, impostazione che Sturzo non avrebbe mai condiviso; allo stesso modo Einaudi, paladino delle politiche sociali adatte a stabilire l’uguaglianza nei punti di partenza, mai avrebbe accettato un modello di welfare particolaristico, assistenzialistico e corporativo come quello che si è andato formando in Italia dagli anni Cinquanta in poi. Quella politica di redistribuzione attuata attraverso lo Stato, che come sempre avviene per sottrazione ai privati e per mano di politici e burocrati, ha la sua genesi pratica nella sinistra democristiana combinatasi con le spinte provenienti dalla sinistra novecentesca italiana, socialisti e comunisti. Cambiano i colori, cambiano i nomi ma rimane intatto quel cemento con cui è stata edificata in larga parte l’ideologia repubblicana. È ancora quel sinistrume insopportabile ed insopprimibile che guida le politiche economiche all’insegna dell’aumento sconsiderato della spesa statale e del debito pubblico dei recenti governi di centrosinistra e di centrodestra; perché, ed è qui l’anomalia, in Italia sulle politiche economiche anche la destra è di sinistra quando si tratta di allargare i cordoni della borsa.
Un episodio concreto racconta il valore indiscutibile di personalità come Einaudi e la miseria morale delle classi dirigenti politiche che seguirono: si racconta che il grande economista in una circostanza al Quirinale, a tavola con i convitati, prima di sbucciare una frutta chiese agli ospiti, tra i quali lo scrittore Flaiano, se qualcuno avesse voluto dividerla con lui per non sprecarla, perché troppo grande. La parsimonia di chi la Repubblica l’ha fatta e l’ingordigia di chi poi se l’è divorata.
Sul monopolio della scuola di Stato e sul valore legale dei diplomi Einaudi era inequivocabilmente critico, intravedendo in essi l’avvilimento e la mortificazione delle facoltà morali della persona umana, oltre che sottolineando la totale inconciliabilità con la libertà di insegnamento.
“Finché non sarà tolto qualsiasi valore legale ai certificati rilasciati da ogni ordine di scuole, dalle elementari alle universitarie, noi non avremo mai libertà di insegnamento; avremo insegnanti occupati a ficcare nella testa degli scolari il massimo numero di quelle nozioni sulle quali potrà cadere l’interrogazione al momento degli esami di stato. Nozioni e non idee; appiccicature mnemoniche e non eccitamenti alla curiosità scientifica ed alla formazione morale dell’individuo.“
E lasciamo ancora la parola ad Einaudi, perché sembra quanto mai opportuno per scardinare le correnti opinioni comuni, riguardo alla disoccupazione intellettuale e all’inganno di “un timbro ufficiale“. Attenzione: chi scrive è un Presidente della Repubblica Italiana, nonché uno dei maggiori intellettuali e accademici del Novecento.
“A qual fine dunque lo stato si affanna a mettere sui diplomi un timbro ufficiale privo di qualsiasi effettivo valore? Il più ovvio e primo effetto è quello di trarre in inganno i diplomati medesimi; inducendoli a credere che, grazie a quel pezzo di carta, essi hanno acquistato il diritto od una ragionevole aspettativa ad ottenere un posto che li elevi al disopra degli addetti alle fatiche manuali dei campi o delle officine. L’inganno dà ragione di quel piccolo germe di verità che è contenuto nelle querimonie universali intorno al crescente ed eccessivo numero degli studenti medi ed universitari. Querimonie assurde; ché tutti dovremmo augurarci cresca sino al massimo – intendendo per «massimo» la « totalità » dei giovani viventi in un paese ed in età di apprendere, ad eccezione soltanto degli invincibilmente stupidi, e dei deliberatamente restii ad ogni studio – il numero di coloro i quali giungano ad assolvere quegli studi medi od universitari, ai quali dalle loro attitudini essi sono fatti adatti. […] Il danno non sta nei molti, nei moltissimi studenti; sta nell’inganno perpetrato contro di essi, lasciando credere che il pezzo di carta dia diritto a qualcosa; e cioè, nell’opinione universale, all’impiego pubblico sicuro od alla professione tranquilla.“
Infine, interessante è comprendere come l’esclusiva di poter svolgere una professione o un mestiere, oltre ad essere inconciliabile con qualsiasi teoria e pratica della libertà, sia un privilegio gravissimo che genera egoismi e marginalizza chi, pur capace, trova nella prerogativa del diploma un impedimento insormontabile; prerogativa, secondo l’economista piemontese, fondata su una “legge iniqua“. Da un simile sistema, possiamo aggiungere, sorgono e si fortificano posizioni di privilegio per chi è investito del potere di insegnamento e limiti alla concorrenza tra professionisti oltremodo onerosi per i fruitori dei servizi professionali, a vantaggio esclusivo della formazione di parassitarie aristocrazie professionali, delle cui competenze è sovente lecito diffidare.
“Il valore legale dei diplomi dà luogo, ancora, ad un altro inganno e questo contro la società. Esso eccita le invidie e gli egoismi professionali. L’ingegnere, a causa di quel diritto a dirsi « ing. dott. », si reputa dappiù del geometra; ed ambi sono collegati contro i periti agrari. I dottori in scienze commerciali sono in arme contro i ragionieri; ed ambedue contro gli avvocati. Dottori in legge, avvocati e procuratori combattono lotte omeriche gli uni contro gli altri. Chi ha detto che gli esempi scolastici delle contese dei ciabattini contro i calzolai, degli stipettai contro i falegnami, e di questi contro i carpentieri sono roba anacronistica, ricordi medievali? Si calunnia atrocemente il medio evo quando lo si fa responsabile dell’irrigidimento corporativo che fu invece opera dei governi detti assoluti dei secoli XVII e XVIII; ma le battaglie dei secoli più oscuri del corporativismo assolutistico parranno scaramucce in confronto a quelle che si profilano sull’orizzonte dei tempi nostri. Dare un valore legale al diploma di ragioniere vuol dire che soltanto all’insignito di quel diploma è lecito compiere taluni lavori ragionieristici e nessun altro può attendervi; ed egli a sua volta non può fare cosa che è privilegio del dottore in scienze commerciali o dell’avvocato. Quelle dei secoli XVII e XVIII erano idee atte a rovinare le finanze delle arti dei calzolai e dei ciabattini; ma, pur creando posizioni monopolistiche, non riuscivano ad impedire del tutto l’opera logoratrice dei non iscritti. Ché gli stati assoluti dei secoli scorsi disponevano, per farsi obbedire, di armi di gran lunga meno efficaci di quelle che sono proprie degli stati moderni; e dove non giungeva saltuariamente il dragone a cavallo, ivi prosperavano quei che non avevano diritto di dirsi né ciabattini né calzolai. Oggi, la potestà pubblica giunge in ogni dove; ed i magistrati hanno molta maggiore autorità per far rispettare, come è loro dovere, la legge. Anche la legge iniqua, la quale, creando diplomi ed attribuendo ad essi valore legale, condanna alla geenna della disoccupazione coloro che, essendone sforniti, non possono attentarsi a compiere il lavoro che essi sarebbero pur capacissimi di compiere ma è privilegio del diplomato.”
Queste alcune parti dello scritto di Einaudi, il cui merito fondamentale, per cui andrebbe letto, è la capacità di smontare con il ragionamento logico e con la cultura storica le opinioni scioccamente diffuse e le false certezze circa le aspettative celate dietro al possesso di un pezzo di carta; e di evidenziare come il valore di un individuo risieda essenzialmente nelle facoltà morali e nelle conoscenze scientifiche, non in un diploma superiore o universitario. Il più grande filosofo italiano del Novecento Benedetto Croce, con cui Luigi Einaudi si intrattenne nella famosa contesa terminologica sul liberalismo, ne è un esempio. Moralità e conoscenza non necessitano per forza della scuola per essere perseguite e raggiunte, tantomeno dell’indottrinamento della scuola statale; necessitano però di studio.
In qualsiasi settore è solo il cliente a dover essere in obbligo di decidere chi è capace e chi non lo è nell’esercizio di una professione o di un mestiere: la più grande garanzia di merito e di legalità risiede, solo ed esclusivamente, nella libera scelta; nessuno deciderà mai di servirsi di qualcuno senza valutare competenza e qualità, motivo per cui il cliente si rivolgerà sempre e soltanto a colui che ritiene meritevole. Al bando, dunque, i “timbri ufficiali” e le firme “autorevoli”! Sono un ostacolo gravissimo al merito, sono la suprema rappresentazione materiale dell’aristocraticismo accademico.
Abolire il valore legale dei titoli di studio produrrebbe alcuni effetti. Tra questi, cadrebbe l’esclusiva nei concorsi statali, e ciò non sarebbe negativo. Se si considera (dati Istat e Banca d’Italia) che nei ranghi dello Stato solo fino all’inizio degli anni ottanta la maggioranza dei funzionari, tra questi anche quelli con posizioni di responsabilità, era in possesso di diplomi di scuola primaria o secondaria e si stabilisce un confronto con quanto avvenuto dagli anni novanta in poi, cioè da quando in linea di massima si è anteposto il criterio di valutare la formazione privilegiando in molti ruoli i detentori di un diploma universitario, si deduce come il raggiungimento del livello universitario di studi non abbia portato, fatte poche eccezioni, a raggiungere il maggiore obiettivo prefissato, ossia il miglioramento generale delle competenze tecniche e delle qualità morali dei dipendenti pubblici. Lentezza ed incapacità della burocrazia, insieme all’inefficienza nell’erogazione dei servizi pubblici, sommate alla corruzione largamente diffusa sono problemi che attanagliano la pubblica amministrazione e rendono scadenti i servizi forniti dallo Stato. Problemi ancora tutti da risolvere, per i quali non è bastato il pezzo di carta come qualcuno aveva propagandato. Il secondo effetto avrebbe i suoi riverberi sul mondo delle accademie e delle professioni. E in questa sede avverrebbe la battaglia più dura, perché sarebbero colpite le Università Statali e gli Ordini professionali, due caste nei confronti delle quali finora la politica si è dimostrata pavida ed inerme, se non complice. Attuare misure di liberalizzazione per quel che riguarda le modalità di ingresso all’esercizio delle professioni significa, in sostanza, porre fine al sistema degli esami di Stato e al monopolio dell’Università statale, che per gli insegnanti vuol dire meno cattedre, ergo meno stipendi garantiti. Liberalizzare vuol dire scardinare le posizioni di privilegio acquisite.
Il modello scolastico a cui si riferisce Einaudi è quello anglosassone, che ebbe modo di conoscere direttamente. In particolare, egli sosteneva la necessità di avere ampia libertà di insegnamento ed era fermamente convito dell’enorme utilità di creare molte più scuole presso cui studiare, senza che le stesse scuole dovessero avere per forza ufficiale legittimazione statale, necessitando principalmente di legittimazione morale. Ma nei suoi scritti, non esclusivamente in quello sopra riportato, si evidenzia un radicalismo ancora maggiore che va oltre la critica del monopolio statale sulla scuola e l’esaltazione di un sistema capace di garantire ampio pluralismo nell’offerta scolastica. Quando inquadra come privilegio quello del diplomato che solo può compiere un lavoro rispetto a colui il quale, pur capacissimo, è sfornito del diploma, attribuendo tale condizione ad una “legge iniqua”, afferma tout court la negazione del diploma quale mezzo essenziale ed obbligatorio per praticare un mestiere o una professione. La sua è destinata a rimanere una lezione per chi governerà l’Italia, dal momento che, spesso, chi ha governato in passato questa battaglia liberale einaudiana l’ha portata avanti solo a parole e mai nei fatti. Abolire il valore legale dei titoli di studio è un atto di libertà. E solo nei contesti sociali dove la libertà è largamente diffusa possono svettare le intelligenze più alte ed affermarsi i talenti migliori.
Quirino De Rienzo