Il percorso che intraprenderemo riguarda il processo ideologico che ha determinato i fatti storici sui quali si fonda l’Unità dell’Italia. La strada è tortuosa perché numerosi furono gli stravolgimenti ideali, storici e sentimentali che coinvolsero i patrioti italiani.
Il filo della storia si dipana lungo tutta la prima metà del 1800. I gruppi dirigenti che fecero l’Italia arrivarono piuttosto tardi a realizzare compiutamente la loro maturazione ideologica e psicologica in relazione allo Stato nazionale. L’Italia doveva essere, nelle loro intenzioni, qualcosa di assai diverso rispetto a quello che divenne, poi, nel 1861 e di cui abbiamo ricevuto l’eredità. La maggior parte di essi, e con più forza i liberali, volevano un’organizzazione politico-istituzionale che mettesse davanti a tutto il primato del locale. Nel rapporto centro-periferia, essenziale per capire la loro idea di nazione, si dimostrarono, fin dal principio, tenacemente ostili a sbilanciare il peso a vantaggio del centro. L’ “indipendenza municipale” contro l’assolutismo del potere centrale per realizzare un governo “del paese per il paese”, si disse. Da Cuoco a Cattaneo, da Napoli a Milano, gli intellettuali ambivano, seppur con delle differenziazioni, a un’Italia municipale.
La vocazione degli italiani è da sempre localistica. Da questo deriva che nel rapporto centro-periferia il primato è affidato al locale. La visione dei patrioti risorgimentali nella fase preunitaria contemplava, perciò, lo Stato pluricittadino a vocazione policentrica, osteggiando lo Stato amministrativo ottocentesco, ovvero lo Stato moderno, la cui natura omologatrice e uniformizzante veniva percepita come inconciliabile con la civiltà del nostro Paese. Nell’esperienza italiana lo Stato altro non era che contenitore; erano contenuti all’interno i corpi, i ceti e gli enti intermedi. E infatti, gli Stati della Penisola italiana, nella loro struttura comunal-regionale, rispondevano ai criteri di antico regime e conservavano come principale funzione quella di garantire l’equilibrio al proprio interno.
Perciò, i patrioti preunitari di ogni tendenza rivendicavano un governo ampio a livello locale, già a partire dalla dominazione napoleonica e quasi fino all’Unità. A seguire analizzeremo i passaggi principali che portarono alla modificazione delle loro idee originarie.
IL PERIODO NAPOLEONICO E I MOTI DEL ’48
Lo Stato napoleonico risolse la questione locale-nazionale con la nazionalizzazione imposta dall’alto e con la gestione esecutiva dello Stato; in tal modo la periferia rimase nient’altro che il luogo di attuazione della volontà centrale. Tale maniera di imporsi contribuì, e non poco, a far emergere il sentimento di rinascita nazionale e la volontà di indipendenza, autentico motore del Risorgimento.
Poco dopo i fatti della storia portarono a dibattere intensamente circa l’ordinamento politico-giuridico-statuale da dare all’Italia e tornò con prepotenza alla ribalta l’idea di una nazione caratterizzata dal pluralismo istituzionale dentro un confine statale assai sfocato. Nel ’48 un sistema simile fu sperimentato nel contesto degli Stati regionali italiani e subito ci si accorse dei limiti di quel disegno.
Con i moti del ’48 l’ordine plurale mise in scacco il modello di Stato burocratico centralistico di stampo napoleonico, riconoscendo la preminenza dello Stato regionale e stabilendo come patria la municipalità. I patrioti, ciascuno con differenti sfumature, ambivano a un’Italia plurima. Cattaneo si esprimeva a proposito delle unità comunali come del “principio ideale della storia italiana”; e non aveva torto. Tra le correnti di pensiero di quel tempo se ne diffuse una che mirava all’abbattimento degli Stati regionali per formare una federazione pluricittadina, qualcosa di molto simile alla vicina Svizzera.
GIOBERTI, MAZZINI, CAVOUR E LO STATO NAZIONALE
Nel cambiamento di paradigma decisivo fu Gioberti, il quale, perdendo la fiducia nella rigenerazione dal basso della nazione, arrivò a condannare “gli ordini federativi senza centralità politica” e ipotizzò per l’Italia un rinnovamento eterodiretto, basato sulla “egemonia” che uno degli Stati doveva assumere su tutti gli altri. Gioberti cambiò fisionomia alle nostre élite, orientando la sensibilità dei patrioti verso il progressivo superamento del progetto di un’Italia plurima; suo, inoltre, il merito di aver intuito, seppur confusamente, prima di chiunque, che per fare dell’Italia un unico Stato era inevitabile auspicare il dominio di una sola delle dinastie regnanti sulle altre. Pochi anni dopo fu accontentato dai Savoia. Tra i fervidi sostenitori dell’unitarismo c’era Mazzini, ostile a qualsiasi genere di frazionismo, poiché aveva compreso che non poteva esserci indipendenza senza unità.
Ma fu Cavour, più di ogni altro, a cogliere l’intima debolezza di un disegno basato sulle municipalità. Egli capì che la vera grandezza degli Stati moderni consisteva nella capacità di assicurare la libertà e i diritti politici a una moltitudine di persone, senza che queste dovessero ricorrere al pericoloso espediente di riunirsi in tante piccole associazioni. Cavour contaminò della propria visione moderna gli altri liberali, ancora fermi alla visione pluralistica di antico regime. Il liberalismo cavouriano prevedeva la separazione tra politica e amministrazione, anteponendo ai governi locali le istituzioni centrali, le quali dovevano essere piene di ogni attribuzione politica. Dunque, il nuovo orizzonte era lo Stato nazionale, già affermatosi nel centro-nord Europa, con la legislazione proveniente dal centro e l’amministrazione dislocata sul territorio per svolgere i compiti esecutivi.
L’ITALIA CHE NACQUE
Alla fine il verdetto fu, grossomodo, il seguente: a un ordinamento con base comunal-regionale si preferì il sistema di derivazione francese a carattere ministerial-prefettizio. Istituzioni, quali ministeri e prefetture, che nulla avevano a che fare con la nostra tradizione storica e culturale, furono calate dall’alto e imposte. L’Italia che avevano auspicato i patrioti preunitari, cioè un’Italia di municipi con base elettiva diretta per le assemblee comunali e rappresentanza di secondo o terzo livello per le assemblee di ordine più grande, non trovò realizzazione.
Ne conseguì un sistema centralizzato che lasciò alcune competenze ai Comuni e alle Province. Furono sacrificate le Regioni, in primo luogo perché sul piano identitario e simbolico rimandavano alle antiche dinastie, e in secondo luogo perché i governi regionali non avrebbero potuto più assolvere alla funzione che fino a quel momento gli era stata propria, ossia conservare l’equilibrio al loro interno; il che avrebbe richiesto di attribuire a quei governi una caratterizzazione di tipo statale, inconciliabile con lo Stato unitario.
Tuttavia, cambiato il quadro politico-statuale, continuò a rimanere inalterata, nelle nuove e nelle successive classi dirigenti, la predilezione per il locale. La periferia assunse un ruolo centrale rispetto al centro, con i rappresentanti della Nazione che svolgevano il proprio mandato per assecondare le richieste dei territori da cui provenivano. La classe politica utilizzò i propri poteri per soddisfare interessi municipal-corporativi nella politica e nell’amministrazione. Quanto questo atteggiamento sia stato deleterio per l’Italia è inutile ribadirlo. Per fare solo un esempio: la distribuzione delle risorse, improntata al cosiddetto principio della solidarietà nazionale, mantello sotto cui si è nascosto il peggior malaffare politico della storia repubblicana, ha avvantaggiato e aiutato i territori a predisposizione parassitaria, andando, molte volte in modo truffaldino, a discapito delle aree più produttive del Paese. Gli interessi locali cominciarono, comunque, fin da subito ad essere anteposti a quelli nazionali, ribaltando la preminenza dello Stato-nazione e sancendo di fatto il primato del locale, tuttora perdurante. Un locale che, in un sistema così congegnato, si avvale, per essere sovvenzionato, delle risorse economiche nazionali.
In definitiva, l’obiettivo politico originario del movimento risorgimentale non era l’Unità. Quando si cominciò a capire che non ci poteva essere indipendenza senza unità, il percorso cambiò. Tuttavia questa svolta non fu priva di implicazioni negative.
QUEL CHE RIMASE DEI COMUNI
Lo spirito libero, e per certi versi anarchico, connaturato negli italiani si esplica nel Comune. I Comuni, insieme alle Signorie uniche istituzioni politiche di matrice italiana, nascono praeter legem; in origine sono quindi enti de facto e non di diritto. E nascono dalla libera associazione in opposizione al potere feudale, contro i suoi soprusi e le sue angherie, come governo autonomo cittadino per scopi inizialmente di natura commerciale. Proprio nella genesi dei Comuni troviamo l’essenza della migliore identità italiana: la ricerca della libertà, l’entusiasmo creativo, lo spirito intraprendente che spingono a svincolarsi, a misurarsi, a competere. Non è un caso che il Comune si sia affermato prima e più diffusamente nel centro-nord dell’Italia, mentre il sud sia rimasto per secoli, escluse poche eccezioni, largamente sotto l’ordine feudale. Questa è, forse, una delle ragioni principali alla radice della differenza del modus vivendi e delle diverse inclinazioni d’animo tra le due parti della Penisola: da una parte i cittadini centro-settentrionali, volitivi e desiderosi di essere quanto più possibile indipendenti e liberi dai lacci soffocanti dell’autorità politico-statale; dall’altra parte gli abitanti meridionali, compiacentemente sottomessi, indolenti e beati di ricevere prebende o munifiche elargizioni da parte del feudatario di turno. La mentalità assistenzialistica ha origini antiche. Il fatto che il centro-nord dell’Italia, con il suo dinamismo e con il suo spirito d’intraprendenza, sia stato l’artefice principale della rivoluzione dei Comuni, denota, in ultima istanza, la vocazione interiore alla libertà che da almeno mille anni ne caratterizza la popolazione, differenziandola da quella del resto della Penisola.
La psicologia collettiva risente dell’influsso del passato, anche di quello più remoto, e, pertanto, ancora oggi si adegua malvolentieri a uno Stato centralizzato, burocratico e fiscalmente oppressore.
Una nazione senza Stato, cucita su misura della personalità italiana: era questo per cui lottarono, idealmente e fattivamente, i patrioti preunitari.
L’Italia dei Comuni fu tradita: essi furono indeboliti nel potere e ridimensionati nelle competenze, rimanendo relegati in condizione subalterna rispetto allo Stato centrale. Molto probabilmente questo processo era inevitabile per l’indipendenza dell’Italia, considerando il contesto europeo che andava delineandosi e gli Stati nazionali dell’Europa settentrionale in piena affermazione.
Ma, nonostante le vicende storiche e le scelte delle classi dirigenti, nella coscienza individuale e collettiva la patria di ogni italiano rimane il Comune. Lo è sempre stato, lo è tuttora.
Quirino De Rienzo