Nell’ultimo decennio ne abbiamo sentite di tutti i colori: “in Italia la volontà popolare non viene mai rispettata”, “chi governa deve essere eletto dal popolo” e molto altro ancora che non è opportuno ripetere per evitare di sprecare tempo inutilmente. È doveroso sottolineare, a tal proposito, l’incongruenza tra la propaganda ed i fatti. In realtà, l’attuale massima carica governativa non risulta essere stata scelta dal popolo e, pertanto, il governo italiano ha al suo vertice un “tecnico”, non una figura politica legittimata direttamente dagli elettori. Altro che governo del popolo! Anche perché, andrebbe sempre ricordato a chi è abituato a parlare a vanvera, la Costituzione italiana prevede che i governi siano eletti e votati dal parlamento. Per di più, si tratta di un primo ministro “tecnico” proveniente dal mondo dell’università statale, la quale nel nostro Paese detiene in modo quasi incontrastato il monopolio dell’istruzione superiore, determinando e decidendo sulla base esclusiva dei propri timbri e dei propri attestati chi può svolgere una determinata professione oppure chi ha legittimità ad accedere allo svolgimento di ormai quasi tutti gli esami di Stato per le abilitazioni professionali e della maggior parte dei concorsi statali.
Non erano, Lega e M5S, contro le lobby, contro le caste, contro i poteri forti? E cos’è quello dell’università statale italiana se non un potere enorme, per taluni in certi casi un feudalesimo di ritorno, rafforzato dalla scarsa concorrenza quantitativa degli atenei privati e dalla permanenza del valore legale del titolo di studio? Suona strano che questa maggioranza parlamentare, la quale sostiene, a suo dire, il primo governo del popolo nella storia italiana, abbia scelto come guida, o più correttamente come mediatore, un professore universitario estraneo alla politica e non eletto dai cittadini nel parlamento nazionale.
Proprio nel Paese in cui le scelte del popolo non sarebbero state mai rispettate, il M5S si era posto fin dall’inizio il compito di governare secondo la volontà popolare, facendo della democrazia diretta uno dei cavalli di battaglia della sua propaganda elettorale. Una forza politica fondata su tali premesse, oltre a rafforzare gli strumenti futuri di partecipazione popolare, dovrebbe per prima cosa fare giustizia del passato, cominciando dall’attuazione dei referendum svolti negli anni precedenti e rimasti ancora inattuati.
E allora si cominci privatizzando la Rai. Da sempre sotto il controllo dei partiti, lo è tuttora. Durante la Prima Repubblica la lottizzazione prevedeva Rai 1 alla Dc, Rai 2 al Psi e Rai 3 al Pci; con la Seconda Repubblica è stata marcatamente a sinistra quando governava la coalizione di centrosinistra e più spostata verso il centrodestra con Berlusconi a Palazzo Chigi, contemporaneamente premier e maggior azionista di Mediaset, televisione generalista concorrente.
Nel 1995 fu promosso dal Partito Radicale e dalla Lega Nord il referendum, che raggiunse il quorum, con il 54,90% dei votanti favorevoli all’abrogazione delle norme che dispongono l’esclusiva proprietà statale della Rai, al fine di aprire la strada alla privatizzazione, con conseguente abolizione del canone annuale.
Quello che sta accadendo negli ultimi mesi conferma che le intenzioni degli italiani erano giuste. Prima di tutto risulta inequivocabile il cambiamento di linea editoriale dei telegiornali delle reti televisive nazionali Rai, a cui si aggiungono le continue ingerenze verbali di vari esponenti della maggioranza su programmi e conduttori televisivi poco graditi. Sembra che l’indirizzo generale venga dettato da meccanismi non propriamente televisivi e aziendali. Ancora più seri sono alcuni campanelli d’allarme riguardo alla piena e incondizionata libertà di espressione e di scelta nei programmi Rai. Per esempio, qualcuno ricorda un Festival di San Remo in cui non sia stata fatta feroce satira politica? Probabilmente no. Quello che è accaduto nell’edizione del 2019 rappresenta un unicum. Pochissimo spazio alle ospitate dei comici e nessun esponente politico oggetto di satira. Nel passato ricordiamo le invettive di Grillo contro la partitocrazia e gli esponenti politici della Prima Repubblica, Benigi prendere di mira il centrodestra senza risparmiare battute sul centrosinistra, Crozza fare satira prima su Berlusconi e poi su Renzi. Nell’ultima edizione del Festival nessuna satira politica. Ordini dall’alto? Se così fosse, sarebbe una spia gialla per il pluralismo delle opinioni nella televisione di Stato.
Oggi il governo gialloverde si trova di fronte all’opportunità storica di far valere la volontà dei cittadini, dando attuazione al referendum del 1995 ed eliminando il controllo della politica (governo e parlamento) sulle nomine del CdA e del direttore generale della Rai, coerentemente al proprio credo politico. Ricordate quando i Cinquestelle disertavano gli studi televisivi perché li ritenevano covi del regime partitocratico? Ricordate quando attaccavano i diversi governi colpevoli di controllare i vertici della Radiotelevisione Italiana attraverso le nomine politiche? Ebbene, preso il potere, si sono dimostrati incoerenti con quanto sostenuto nel passato ed, entrati nel sistema, continuano a mettere in atto lo stesso tipo di controllo dei predecessori. Adesso non è più tempo di predicare il cambiamento, tanto la Rai è nelle proprie mani; e il controllo del potere mediatico serve a chi governa per generare nuovo consenso, obbligando tutti a pagare il canone.
Questo è l’ennesimo bluff dei gialloverdi, che ambiscono alla definizione di governo del cambiamento ma nei fatti ripropongono anche sulla Rai lo stesso sistema di potere dei governi precedenti.
Il parlamento e il governo procedano all’attuazione del risultato referendario del 1995, che aveva uno dei due partiti di maggioranza tra i promotori. Il M5S dimostri, in tal modo, di far valere veramente le scelte dei cittadini, attuando uno di quei referendum rimasti finora inattuati.
Se questo vuole passare alla storia come il governo del popolo e del cambiamento, cominci dalla privatizzazione, parziale o totale, della Rai. Lo faccia in nome del popolo, seguendo l’indicazione referendaria. Se così non dovesse essere, vorrà dire che, anche in questo caso, avremmo assistito all’ennesima presa per i fondelli, messa in atto da governanti che scarseggiano nei fatti e abbondano nelle parole.
Quirino De Rienzo
Non ho mai sopportato che i cittadini debbano pagare il canone Rai. Concordo per la privatizzazione di tale azienda e approvo quanto scritto nell’artIcolo.