Le discussioni sulle condizioni generali del Meridione d’Italia sono da tempo intavolate sui soliti luoghi comuni, sui piagnistei miserevoli e sul fanatismo statistico. Raramente si intravedono proposte davvero nuove e brillanti; e come potrebbe essere altrimenti, considerata la banalità e la superficialità delle analisi da cui i diversi ragionamenti muovono! Le voci più disparate includono coloro i quali auspicano un ritorno al primato della politica, o anche l’intervento diretto dello Stato nell’economia. Non mancando la fantasia, troviamo perfino qualcuno che invoca un nuovo programma straordinario per il Mezzogiorno. Siffatte soluzioni, già provate ampiamente nei decenni scorsi, non hanno risolto mai gli enormi problemi del Sud Italia.
A titolo esemplificativo consideriamo due strumenti utilizzati dalla politica nazionale per risollevare le sorti economiche del Meridione nel dopoguerra.
La vituperata Cassa per il Mezzogiorno, per i primi due decenni dalla sua istituzione innegabilmente protagonista positiva dello sviluppo economico e industriale del Sud, diventò presto il mezzo per porre in atto politiche clientelari e familistiche, sperperando senza controllo denaro dei contribuenti e trasformandosi da meccanismo virtuoso di sviluppo in un gigantesco carrozzone politico. Secondo stime attendibili la Cassa ha avuto un costo complessivo di 140 miliardi di euro, mentre altri sostengono che la spesa sia stata addirittura maggiore.
Sorte molto simile toccò all’IRI-Istituto per la Ricostruzione Industriale, ente pubblico protagonista dell’economia nazionale per larghi tratti del Novecento; anch’esso con il passare degli anni finì per diventare strumento di pratiche clientelari utilizzate dai partiti del dopoguerra, che a quel tempo si dividevano poltrone e potere, per accrescere il consenso elettorale. E di conseguenza crebbero anche i debiti. I vertici dell’IRI, pur rivendicando la loro autonomia, non si opposero quasi mai all’indirizzo dirigista della politica di privilegiare gli investimenti industriali in zone dell’Italia arretrate e non industrializzate, in particolar modo al Sud. Il fallimento di quella impostazione si misura anche dal numero di industrie sopravvissute, oltre che dai dati sulla distribuzione del Pil per aree geografiche. Infatti dal grafico emerge come la percentuale del Pil delle regioni meridionali sul Pil nazionale sia rimasta pressoché costante anche negli anni in cui le politiche stataliste e assistenzialiste imperavano nell’agenda dei politici italiani. E ancora oggi i numeri si attestano a livelli percentuali molto simili.
Il grafico, elaborato su dati Istat, mostra come, negli anni in cui la spesa pubblica era più centralizzata e maggiormente equa era la redistribuzione territoriale delle risorse, in concomitanza con la presenza di importanti industrie nazionali e degli ingenti aiuti per lo sviluppo concessi della Cassa per il Mezzogiorno, la quota percentuale di Pil prodotta nell’Italia meridionale sia rimasta quasi la stessa (1/4 del totale), risultando le politiche economiche degli anni presi in considerazione incapaci di ridurre il divario con l’economia del Nord Italia.
Quelli sopra riportati sono soltanto due esempi di come l’intervento diretto dello Stato nell’economia e gli aiuti allo sviluppo economico possano, e neanche sempre secondo le attese, portare a risultati riscontrabili nell’immediato, risultando poco utili e duraturi nel lungo periodo. Anzi, essi diventano oppressivi quando finiscono per costituire i modi principali attraverso cui la classe politica permea le strutture industriali e invade i settori dell’economia, generando corruzione diffusa e instaurando un regime di controllo pervasivo, dove le scelte politico-affaristiche prevalgono su quelle aziendali. Per giunta, un modello di sviluppo simile è destinato a soccombere se nell’economia è presente un certo livello di concorrenza.
L’industrializzazione forzata e programmata dallo Stato è un mito ancora lontano dall’essere abbattuto, seppure la realtà dimostri come il progresso scientifico-tecnologico sia un fenomeno che sfugge al controllo di qualsiasi entità collettivistica affermativa di una morale giuridicamente vincolante, essendo prodotto esclusivo dei comportamenti individuali. L’unico modello di sviluppo industriale durevole nel tempo è, nelle premesse, svincolato dall’assoggettamento a decisioni e imposizioni statali, ma sottomesso esclusivamente alle regole del mercato.
Uno dei principali problemi del Meridione rimane la presenza di una cultura economica statalista predominante, unita a una concezione onnipotente e onnicomprensiva della politica. Fino a quando nella mentalità comune sopravviverà l’aspettativa nello Stato benefattore non potrà esserci riscatto sociale e morale. Cultura statalista solo economica, si badi bene, e per lo più quando c’è da ricevere, perché di cultura politica e sociale dello Stato ce n’è sempre stata poca. In un simile modello di pensiero, in cui è lo Stato a doversi occupare di tutto, quando accade che, per motivi di oggettiva impossibilità, non tutte le attese possono essere soddisfatte, si fa largo la sfiducia nelle istituzioni e si diffonde la cultura anti-stato, manifestata con rigurgiti secessionisti neoborbonici o, peggio, attraverso fenomeni criminali.
Al Sud serve lo Stato della legalità, non lo Stato della spesa pubblica assistenziale e clientelare. Al Sud servono investimenti in grandi opere pubbliche strategiche, non altra spesa corrente.
Per dare inizio al riscatto i meridionali dovrebbero abbandonare le secolari aspettative di salvezza legate all’aiuto del potere politico-statale, ricercando attraverso la legge nuovi spazi di autonomia, e, a proposito dei governi, cominciare a pensarla come Theaurau, secondo cui “il governo migliore è quello che non governa affatto”. Sarebbe il primo passo nel cammino verso un Mezzogiorno moderno.
Quirino De Rienzo